Brividi estetici e raggricciare la
pelle per combattere la depressione
GIOVANNA
REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 27 gennaio
2024.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Purtroppo un principio fondamentale della terapia
psichiatrica chiaramente formulato dal nostro presidente già prima della
nascita della nostra società scientifica, ossia avere l’obiettivo di modificare
il quadro funzionale patologico attivo nel cervello del paziente, è ancora
ignorato da molti psichiatri e dalla maggior parte degli psicologi psicoterapeuti
impegnati nel trattamento di persone affette da disturbi psichiatrici. Senza questo
scopo prioritario al quale si associano e si accostano gli interventi
palliativi e di fase acuta volti al trattamento dei sintomi per ottenere
benessere soggettivo, interruzione di circoli viziosi o escalation ed
esercizio delle risorse psico-adattative, si regredisce a un’epoca
pre-scientifica e si cade nell’illusione che qualsiasi rimedio che provochi
qualche effetto positivo (cromoterapia, aromaterapia, fitoterapia,
musicoterapia, ecc.) abbia dignità ed efficacia di cura medica.
Questa premessa è necessaria in quanto presentiamo
uno studio che ha valutato gli effetti positivi, in pazienti depressi, di un
particolare tipo di stimolo emozionale su un parametro psichico considerato
alla stregua di un sintomo di depressione. Lo studio è ben condotto, come potrà
verificare il lettore dalla sintesi che qui presentiamo, e il metodo produce
effetti apprezzabili; tuttavia, riteniamo che questa tecnica, qualora ne sia confermata
l’efficacia ed entri nell’uso, si dovrà considerare, come le tecniche di
rilassamento o quelle di decondizionamento, parte di uno strumentario a
disposizione dello psichiatra e non debba essere confusa con una “terapia della
depressione”, ossia con un piano di intervento articolato e
personalizzato sulla specifica persona depressa e finalizzato alla risoluzione
dello stato fisiopatologico del cervello, con la conseguente guarigione
clinica.
La depressione, quale insieme di tutti i disturbi
depressivi, costituisce un problema di salute globale che si stima interessi
più di 300 milioni di persone nei cinque continenti; i limiti della terapia
farmacologica, che risulta inefficace in una percentuale bassa ma significativa
di casi, di vari approcci psicoterapeutici e di molti psicoterapeuti, in quanto
non formati adeguatamente a portare avanti strategie efficaci, inducono gli
psichiatri a guardare con favore allo sviluppo di nuove tecniche che possano
indurre, per evocazione funzionale, effetti benefici nei pazienti.
Evidenze emergenti da varie osservazioni indicano
che esperienze emotive acute caratterizzate da soggezione, trascendenza
e valori di senso, si possono considerare promettenti circa la capacità
di indurre un rapido shift di patterns cognitivi maladattativi
tipici della depressione. Felix Schoeller e colleghi
hanno considerato i cosiddetti brividi estetici, ossia un’emozione
positiva acuta (a “picco”) caratterizzata da sensazioni fisiche quali scosse e
pelle d’oca, e ne hanno verificato l’efficacia in pazienti affetti da disturbo
depressivo maggiore. Si ritiene che il processo che provoca questa reazione
possa influenzare il sistema a ricompensa cerebrale, modificando l’assetto
funzionale, verosimilmente radicato in risposte precoci ad esperienze avverse.
(Felix
Schoeller et al., Aesthetic chills mitigate maladaptive cognition in
depression. BMC
Psychiatry - Epub ahead
of print doi: 10.1186/s12888-023-05476-3, 2024).
La provenienza degli autori è la seguente: Institute
for Advanced Consciousness Studies, Santa Monica, CA (USA); Massachusetts
Institute of Technology (MIT) Cambridge, MA (USA); Institute of Psychiatry and
Neuroscience of Paris (IPNP), University Paris Cité, Inserm UMR-S 1266, Paris (France).
Nella
pratica psichiatrica si sono andate affermando, poco per volta, due diverse
tendenze non corrispondenti a indirizzi di scuola o a concezioni teorizzate
sull’interpretazione clinica delle conoscenze sui disturbi psichici, ma di
fatto riconoscibili in tutto il mondo: la prima riduce ogni disturbo alle sue
manifestazioni sintomatologiche, considerate in funzione della formulazione di
una diagnosi secondo il DSM-5, cui far corrispondere lo schema terapeutico; la
seconda prevede lo studio del paziente, indagando ogni aspetto dei suoi
processi psichici, distinguendo l’attualità delle manifestazioni cliniche dallo
stile psicopatologico di fondo e riconoscendo le risorse integre cui ancorare l’apprendimento
terapeutico, in un processo diagnostico sviluppato nel tempo e costantemente
aggiornato.
Gli psichiatri
che operano nel primo modo è come se, di fatto, seguissero un orientamento neo-comportamentista
che ignora ciò che accade nel cervello del paziente di diverso dal fisiologico e
non considera le conseguenze in evoluzione, che queste alterazioni comportano
sullo stile psicoadattativo della persona affetta. Per questi psichiatri è più
facile considerare un rimedio che riduca temporaneamente alcuni sintomi del
disturbo come una vera terapia.
La questione
è del tutto diversa per gli psichiatri che seguono la seconda impostazione, in
quanto non appiattiscono i processi mentali alterati sui sintomi più evidenti;
e dunque, uno strumento, un sussidio, una strategia, uno stimolo che sortisca l’effetto
di ridurre un sintomo, possono tutt’al più includerlo fra i mezzi suggeriti in
un cambiamento di stile di vita o nelle pratiche di supporto o integrative dei veri
mezzi terapeutici, volti ad ottenere che i processi neuropsichici del paziente
si avvicinino sempre più al profilo fisiologico nel suo regime di compenso
ordinario.
Per tutti
coloro che seguono la seconda impostazione, e particolarmente per quanti
ispirino la pratica alle più recenti acquisizioni delle neuroscienze, i brividi
e la pelle d’oca causati dai video di Felix Schoeller e colleghi
non possono considerarsi una vera terapia.
Cogliamo l’occasione di questa recensione per
proporre un’introduzione alla depressione e al problema della sua identità
nosografica in rapporto alla diagnosi, traendola da un precedente articolo[1].
La condizione depressiva, anche se oggi è pressoché
universalmente declinata secondo il paradigma dei disturbi del Manuale
Diagnostico Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM-5), nasconde
l’insidia concettuale dell’ambiguità del termine depressione, che può
essere riferito a un sintomo, a una sindrome o a un’entità nosologica, come
affermava Lehmann già nel 1959. La categoria dei pazienti depressi è quantomai
eterogenea, non soltanto perché include affetti da disturbo depressivo
maggiore, disturbo depressivo da stress e fase depressiva dei due tipi
di disturbo bipolare, ma perché vi fanno parte gli affetti da tutte le forme di
patologia psichiatrica, neurologica e internistica che abbiano sviluppato il
funzionamento cerebrale depressivo. Almeno un episodio depressivo temporaneo,
anche se di breve durata, si può reperire nell’anamnesi di quasi tutti i
pazienti, perché accade nella vita di tutti, anche delle persone con la
migliore salute psichica e sempre allegre di natura, che si vada incontro a
periodi di umore triste, mancanza d’iniziativa e sofferenza morale.
Dunque, è proprio la categoria della depressione
come “classe” ad essere problematica, pertanto si è proposto di considerare nella
diagnostica la possibilità dell’uso dimensionale del concetto di
depressione, ogni volta che sia necessario, ossia in tutti i casi diversi da
quelli in cui un disturbo depressivo maggiore o una fase depressiva nel
bipolare costituiscano diagnosi esclusive.
Di fatto, fin dagli albori della psichiatria è
apparso evidente che l’umore depresso non in tutti si accompagnava a uno stato
di tristezza vitale, in cui l’individuo si sentiva svuotato di ogni interesse,
e di inibizione all’azione o di dolore morale; ma si tendeva a riportare
tutte le differenze alla gravità dello stato. La prima distinzione argomentata
in modo rigoroso fu introdotta da Sigmund Freud col saggio Lutto e
Melancolia, concepito prendendo le mosse dall’osservazione che, a causa di
un lutto, delle persone in buono stato di salute psichica possono sviluppare una
sintomatologia simile a quella della depressione, allora detta melancolia.
Le osservazioni proseguirono, e le distinzioni
cliniche portarono ben presto a individuare pazienti affetti da uno stato
depressivo profondo, statico, cronico caratterizzato da ideazione delirante, e
pazienti che avevano sviluppato sintomi depressivi a seguito di uno stato di
sofferenza affettivo-emozionale. Nel primo caso si parlava di depressione
psicotica, nel secondo caso di depressione nevrotica, seguendo il
paradigma consolidato dalla semeiotica psichiatrica di impronta psicodinamica, anche
se sussisteva una distinzione tra una forma che si supponeva ereditaria e
dovuta a un’anomalia cerebrale, detta depressione endogena, e una forma
dovuta a una reazione a condizioni protratte di sofferenza emotiva o condizioni
traumatiche per la psiche, definita depressione reattiva.
Per comprendere il modo in cui si è cercato di
interpretare la realtà clinica, può essere utile qualche cenno storico.
La melancolia è originariamente una
condizione patologica della medicina ippocratica e, se la sua definizione era
stata tramandata fra i medici dall’opera di Diocle di Caristo (intorno al 360 a.C.)
Pathos aitia therapeia (Malattia,
causa, cura), dedicata in gran parte ai disturbi psichici, la portata
concettuale del termine è evidente in un aforisma attribuito a Ippocrate che
suggerisce un criterio diagnostico: “se la paura o la depressione dura molto
tempo, questo è melancolico”[2]. In
altri termini, la melancolia, al di là dell’erronea ipotesi
patogenetica, corrisponde alla depressione endogena del ventesimo secolo. In
Diocle troviamo l’origine del termine nella spiegazione della presunta causa
dei sintomi: un addensarsi della bile nera (melaina kholē)
intorno al cuore devia le facoltà psichiche attribuite dai Greci a quest’organo[3]. Alcuni
pazienti melancolici presentavano disturbi intestinali, che oggi attribuiremmo
a somatizzazione di reazioni ansiose da stress, per le quali Diocle
prevedeva una specifica forma clinica: “Un tipo particolare di melancolia era
quello che interessava la cavità addominale[4] e che
poteva essere chiamata oltre che affezione melancolica anche affezione
flatulenta…”[5].
Troviamo la stessa concezione di melancolia in Prassagora di Kos, capo della scuola medica ippocratica
attivo nella seconda metà del IV secolo a.C.[6]
Dopo l’epoca ippocratica aurea, il termine melancolia
è stato impiegato con accezioni molto differenti, in quanto i sia pur limitati progressi
nelle conoscenze di fisiologia e medicina acquisiti durante il Medioevo avevano
escluso la validità delle congetture greche, così che durante il Rinascimento
la parola aveva preso a designare genericamente una sorta di “follia parziale”
senza disturbi dell’intelligenza, ma che non implicava necessariamente la
tristezza[7]. In
altre parole, tutte le categorie cliniche che nella seconda metà del Novecento
erano incluse fra i disturbi nevrotici o nevrosi o psiconevrosi emozionali. All’inizio
del XIX secolo Esquirol, nel tentativo di definire una sistematica
psicopatologica aderente alla propria esperienza e alle idee della nascente psichiatria
scientifica, proponeva il superamento del concetto tradizionale di “follie parziali”
sostituendolo con il termine monomania[8],
distinto in una forma caratterizzata da un elemento espansivo o “monomania
propriamente detta” e una “monomania triste” o lipemania.
Ma il modo in cui Esquirol e altri psichiatri
cercarono di definire queste categorie diagnostiche rimase vago, impreciso e
contraddittorio, tanto da ingenerare una grande confusione, e nella lipemania
si finì presto per includere di tutto, così che Delasiauve dové intervenire escludendo da quel novero la confusione
mentale e lo stupore; Morel argomentò che non aveva giustificazione
includere nella lipemania la sindrome che poi diventerà il disturbo
ossessivo-compulsivo; Kahlbaum fu costretto a spiegare che lo stato catatonico
non era una forma di depressione, ma apparteneva a quel tipo di patologia che sarà
poi sistematizzato nelle forme di psicosi schizofrenica; Falret e Lasegue, infine, tolsero dalla categoria della “monomania
triste” i deliri cronici di persecuzione.
La caratterizzazione della depressione come stato
psicopatologico avverrà solo grazie agli studi che prendono le mosse dalle
pionieristiche descrizioni del disturbo bipolare che, prima di divenire la psicosi
maniaco-depressiva di Kraepelin (1899), era stato descritto da Baillarger
come follia a doppia forma (1854) e da Falret nello stesso anno col nome
di follia circolare.
Dalla fine del XIX secolo comincia lo studio
biologico dei disturbi dell’umore, con particolare attenzione all’ereditarietà
familiare che, nei decenni seguenti, diventerà studio della genetica della
depressione e della psicosi maniaco-depressiva. Intanto, si va affermando la
cultura psicopatologica psicoanalitica, e la maggior parte degli psichiatri, escludendo
la depressione del disturbo bipolare di livello psicotico, per decenni tende a
considerare un’eziopatogenesi psicogena all’origine della depressione e, in
generale, per quelli che si chiamavano i “due poli della reazione distimica”.
Dopo quell’epoca, giungiamo al tentativo
contemporaneo ancora in atto di rifondare la pratica clinica su basi neuroscientifiche,
prendendo le mosse dalla sicura individuazione di un fattore eziopatogenetico
importante nell’attivazione intensa e protratta nel tempo dei sistemi neuronici
dello stress, anche per chi non è geneticamente predisposto, e cercando
di integrare una parte considerevole dei dati emersi dagli studi sperimentali di
genetica, neurochimica, neurobiologia molecolare e neurofisiologia.
In definitiva, si può osservare che per la depressione,
come per le altre grandi categorie della psichiatria, si è scontato per decenni
un errore di impostazione: ritenere che la forma clinica fosse
rappresentativa di un’identità patologica, e che la ricerca sull’eziologia
e sulla patogenesi dovesse riferirsi in modo specifico alla configurazione
sintomatologica su cui si basava la diagnosi.
Felix Schoeller, Nicco
Reggente e colleghi hanno ottenuto l’adesione al loro protocollo di 96 pazienti
affetti da disturbo depressivo maggiore e hanno impiegato, per la presentazione
degli stimoli inducenti l’emozione da brividi, una conosciuta e validata banca
dati denominata “ChillsDB”. La valutazione delle
risposte emozionali dei partecipanti è stata realizzata impiegando l’Emotional Breakthrough
Inventory (EBI), mentre gli shift nel self-schema sono stati
misurati con lo Young Positive Schema Questionnaire
(YSPQ).
I risultati indicano che gli stimoli inducenti
brividi sono in grado di influenzare positivamente il “core” dei processi
fisiopatologici depressivi, impattando l’area psichica delle credenze associate
al Sé. In particolare, mitigando la “cognizione maladattativa”
indotta dalla depressione. La fenomenologia associata ai brividi sembra cerebralmente
simile a quella degli stati di coscienza indotti da farmaci psichedelici come
la psilocibina, attualmente sperimentati per ottenere effetti acuti nella depressione
grave.
Discutendo i risultati, gli autori dello studio
affermano che i processi neurobiologici indotti dagli stimoli che causano aesthetic chills
possono essere interpretati come un intervento terapeutico non farmacologico
nel trattamento della depressione maggiore; anche se immediatamente aggiungono
che sono necessarie ulteriori indagini per comprendere in modo dettagliato ed
esaustivo le basi neurofisiologiche di questi effetti e valutare la
praticabilità, l’efficacia e la sicurezza dell’uso di questo strumento a fine
preventivo e curativo.
Concordiamo con gli autori e ribadiamo che, in ogni
caso, si tratterebbe di uno strumento ausiliario nell’attuazione della
parte del piano terapeutico dedicata alla stimolazione.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna
Rezzoni
BM&L-27 gennaio 2024
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e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 23-09-23 Verso
una diagnosi EEG di depressione.
[2] W. H. S. Jones (testo a cura di),
Aforismi, VI 23, Cambridge Massachusetts – London 1931.
[3] Diocle, Pathos aitia therapeia,
(frammento 42 W), cit. in Vincenzo Di Benedetto, Il medico e la malattia –
la scienza di Ippocrate, p. 51, Einaudi, Torino 1986.
[4] Ma non era l’unico, ve ne erano
altri, come si evince dal frammento 43.5 W. di Pathos aitia therapeia.
[5] Diocle, Pathos aitia therapeia,
(frammento 42 W), cit. in Vincenzo Di Benedetto, op. cit., idem.
[6] Un’epoca posteriore a quella
dell’estensione della massima parte delle opere del grande Corpus Hippocraticum.
[7] Cfr. Henri Ey, P. Bernard Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 267,
Masson Italia Editori, Milano 1983.
[8] Il suffisso -mania era inteso quale sinonimo generico di disturbo
psichico e non nella corretta accezione psichiatrica di disturbo eccitatorio
caratterizzato da altissimo tono dell’umore, tachipsichismo, attivazione
psicomotoria e aggressività fino alla furia pantoclastica.